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Sulla strada per Leobschtz

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Qualche volta succede che la poesia – magari attraverso il dono inaspettato del libro di un poeta – arrivi a prenderci sottobraccio e porti la nostra attenzione su argomenti che non erano nelle corde del pensiero, e del sentimento, sino al momento di iniziare la lettura.

Sulla strada per Leobschütz, è il libro inaspettato, l’argomento è l’Olocausto o, se vogliamo, la persona umana, nella duplice veste persecutrice-aguzzina / perseguitata-vessata; ma, forse, definirei il leitmotiv della raccolta con le parole: assurdo, insensato, inconcepibile, irrazionale, irragionevole, eccetera.

 

Il libro raccoglie una quarantina di poesie che, come fotografie, scene in bianco e nero, immediate, rievocano eventi reali e storicamente documentati, si vedano i riferimenti bibliografici in coda al libro. Santoro inscena, qui, un percorso ineluttabile, doloroso, disperante, che incalza l’assurdo nel dispiegarsi dell’orrore, che prende la sua tetra evidenza nell’atteggiamento cinico degli aguzzini, nella paura dei sottomessi, nelle vittime – sfinite e inermi –, nell’assenza di senso, nell’eclisse della dignità della persona umana. Le poesie sono schiette, limpidi ritratti, costruite con versi narranti ma brevi, efficace innesto di prosa in poesia. Impossibile non girare pagina, impossibile stancarsi in questa lettura in cui germina l’esigenza di raggiungere l’ultima pagina; forse per uscire in fretta da quell’orrore, o, se non altro, per la speranza di trovare, al termine, un riscatto, una giustizia... che purtroppo non arriva, ma, anzi, sulla strada per Leobschütz, si incontra la pazzia al femminile, ed il resto è storia (La pazza sulla strada per Leobschütz, pagina 55):

 

era appoggiata a un tronco d’albero e cantava

stringendoselo al petto, ancora strofinandogli

la punta del nasino bianco

come la neve, come la sbandata

carovana dei morti (pure loro)

allora lei s’alzava in preda a gioia e diceva

«guarda, a mammina, guarda il carosello»

 

Santoro ha, a mio avviso, realizzato un ottimo lavoro storico – esiste il genere poesia-saggistica? – sono infatti poesie che evidenziano, in modo fin troppo puntuale, per chi è debole di stomaco, la vita nei Lager, ed è inevitabile che il pensiero vada ad altre opere note, come ad esempio Se questo è un uomo, di Primo Levi, in cui, come nel libro di Santoro, si respira l’assurda azione disumana dell’uomo su se stesso, l’umanità che si macella e mangia il proprio cuore; la narrazione ha lo stampo di una sorta di rapporto/resoconto di un sopravvissuto.

Ben venga la poesia storica e sociale come quella di questo ultimo lavoro di Santoro, ce n’è bisogno. È un libro che dovrebbe essere usato nelle scuole – si dice così di molti libri, anche di questo. È leggibile in due ore di lezione e permetterebbe di sviluppare argomenti di rilevanza sociale e storica, un modo per discutere e superare non solo la xenofobia ma ogni sorta di fobia, e iniziare a ragionare seriamente con i nostri ragazzi, per mostrare loro l’assurdità di ogni tipo di persecuzione, e convincerli della bellezza dell’accoglienza del diverso, in una parola, della pace. Il mio invito alla lettura è, quindi, rivolto, in particolare, agli insegnanti delle scuole: che cosa ne pensate della possibilità di usare la forza evocativa e attualizzante della poesia con i vostri ragazzi, anche nell’insegnamento della storia, almeno a tratti nel corso del programma? Perché non seguire un percorso storico basato su testi poetici, sunto ineguagliabile di esperienze personali di coloro che ne sono gli autori?

Termino questo rivolo di personali impressioni sul libro, Sulla strada per Leobschütz, con le parole finali della bella prefazione di Giuseppe Conte: […] Alla fine il lettore apprezzerà l’energia di questo libro. Una energia etica che ribalta il male mentre lo inscena, e ne mostra l’intollerabile, banale disumanità. Esco da questo libro grondante orrore con una percezione vitale più forte. Non è questo il miracolo costante, catartico della poesia?



Leggi due poesie tratte dal libro...


 Gian Maria Turi - 23/06/2012 16:53:00 [ leggi altri commenti di Gian Maria Turi » ]

A prescindere da ciò che l’autore sa o non sa sulle cose della Shoah e degli altri genocidi commessi dai nazisti durante il loro breve e infame passaggio nella storia d’Europa, devo dire che trovo insopportabili questi esercizi di stile e di retorica su argomenti tanto disumani, tanto più che l’autore se ne è formato una conoscenza libresca e immaginaria, mentre ancora oggi si possono leggere i testi dei testimoni e delle vittime - che sono davvero parecchi e tremendi. E non c’è bisogno, tanto meno come esercizio letterario, di rivangare certi orrori come se si sapesse di cosa si sta parlando.

Si potrebbe obiettare che, allora, tutta la produzione letteraria e filmica dell’olocausto è invalida se non prodotta da testimoni e vittime. Risponderei che è senz’altro vero, escludendo le indandigi storiche ma includendovi dentro "La vita è bella" di Benigni, acclamato dal pubblico dei gentili come mea culpa postumo e disinnescato e da quello ebraico come l’ennesimo spunto per ribadire il loro tremebondo status attuale, dentro e fuori da Israele, attraverso il vittimismo. In nessuno dei due casi si ricorda davvero, ma si usa la Shoah per fini di oggi ben altri dall’avvisare e ammonire sui rischi di derive autoritaristiche, xenofobe, omofobiche, razziste come fu il nazismo.

(E anche sul nazismo ci sarebbe in lungo discorso da fare, dal quale mi autocensuro per non passare per filoqualcosachenonsono.)

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